Museo delle Arti e Tradizioni di Puglia – Latiano (Br) 1^ Parte

La storia

Il Museo, uno dei primi nella nostra regione, è nato nel 1974 su iniziativa dell’Associazione Turistica Pro Loco di Latiano, e con il contributo di alcuni appassionati di cultura popolare che hanno ricercato i più svariati oggetti del nostro recente passato cercando di coniugarli con gli ambienti a cui si riferiscono.

Dal 1991 il museo è di proprietà comunale.

E’ inserito nell’ambito dei musei demo-etnoantropologici, che comprendono le testimonianze materiali (oggetti d’uso quotidiano) ed immateriali (feste, riti, canti, fiabe, pratiche ecc.) della tradizione recente.

Il tema della memoria è quanto mai attuale ed è legato al dovere di rendere fruibile la nostra storia e le nostre origini. In questi contesti, il tempo sembra essersi fermato e la “frenesia della modernità” assume una dimensione quasi surreale.

L’esposizione raffigura la vita di tutti i giorni, nei campi, nelle botteghe, nella famiglia. Tutti gli ambienti, i manufatti, gli utensili sono illustrati da didascalie in lingua italiana ed in dialetto latianese.

Il Museo rappresenta uno dei pochi momenti di collegamento tra la cultura popolare moderna e la civiltà artigianale e contadina. L’utilità didattica di questo museo è nella disponibilità a recepire ogni comportamento di vita che fu degli abitanti dei paesi e delle campagne di Puglia. Molto interessanti sono le ricostruzioni degli ambienti essenziali della casa-tipo pugliese: ambiente casalingo, artigianale, agricolo (fedelmente ricostruiti con pezzi autentici).

Il primo, quello casalingo, è esemplato dalla ricostruzione di una casa contadina di fine Ottocento, con camera da letto, cucina, angolo per bisogni corporali, lavatoio. Il secondo, il vano artigianale conserva strumenti del lavoro femminile e maschile. L’ambito agricolo è rappresentato dalla raccolta degli attrezzi più comuni del lavoro della terra: zappe, vanghe, forconi, aratri e bardature.”

Il museo complessivamente raccoglie più di 3500 pezzi e manufatti della civiltà contadina, a cui si aggiungono 600 pezzi della sezione speciale Tessile e Abbigliamento e migliaia di documenti dell’Archivio della Memoria (beni immateriali, fototeca, beni culturali, ed altro).

L’ubicazione prescelta è l’ex Convento dei Domenicani, a ridosso dell’antica area urbana. La chiesa è già attestata nel 1520; l’impianto attuale è in continuità con il Convento ed è frutto degli interventi della seconda metà del Seicento. La facciata, semplice ed elegante, è serrata tra due paraste angolari ed è sormontata da un piccolo e grazioso campanile a vela.

Nel 1883, la chiesa fu ceduta all’Arciconfraternita del SS. Rosario che la restaurò a proprie spese nei primi decenni del XIX secolo. Il Convento, invece, fu interessato da due soppressioni: la prima in età napoleonica e la seconda dl 1866. Nel 1867 la casa domenicana ritornò ad essere di proprietà del Comune ed ospitò uffici e scuole.

Il Convento fu fondato nella seconda metà del ‘500 ed è attestato come vicariato nel 1586; dovette avere una certa importanza a giudicare dall’imponente corpo di fabbrica, articolato su due piani. Il suo sviluppo ad “elle” sembra aprirsi verso il nucleo storico della città per comprenderlo tutto in un grande abbraccio. L’ampio e arioso spazio, delimitato dal complesso sacro, appare il giusto preludio per accedere ai luoghi della memoria locale.

Piano Terra

Atrio

Nell’atrio troviamo esposto il Biroccio (in dialetto latianese Sciarrabai): Carro in legno a trazione animale, formato da due grosse ruote a raggi,nella parte superiore delle quali è fissato un supporto di protezione in ferro, il cui asse sostiene un pianale rettangolare con uno schienale sorretto da barre di ferro che prosegue, all’estremità inferiore, in una serie di listelli di legno terminanti in un’asse rettangolare.
Completo di cappotta, molle a soffietto, paracalci e parafanghi curvi.

Sala polifunzionale V. Murra

In fondo alla sala un Calesse e un vecchio proiettore

Calesse (in dialetto latianese Sciarretta). Calesse dai colori verde ed azzurro con abitacolo dal sedile in legno (con protezione laterale e al centro aperto per alloggiare la cassetta degli attrezzi), poggiaschiena sempre in legno e poggiapiedi; presenti due stanghe in legno a sezione rettangolare.

Proiettore
Apparecchio costituito da due bobine metalliche su cui si avvolge la pellicola; un condensatore con una serie di lenti che consentono di proiettare l’immagine; un trasportatore che consente lo scorrimento della pellicola; un otturatore che regola i tempi di esposizione; un obiettivo, un camino e una manovella per l’azione della macchina. La scatola centrale è chiusa da una tendina. Dotato di banco di appoggio

Soffitto

Stupendo il soffitto a crociera che ha, scolpiti agli angoli e al centro, cinque fiori diversi

Cortile

A destra il Museo delle Arti e Tradizioni (1^ parte)

A sinistra lo Scalone che porta ai Musei:  delle Arti e Tradizioni (2^ parte), del Sottosuolo e di Storia della Farmacia

Museo delle Arti e Tradizioni (1^ parte) – La Terra e le sue risorse 

Gli attrezzi agricoli 

L’ambiente agricolo assume una configurazione particolare perché, fino al secolo scorso, l’attività principale dell’economia di Latiano è stata quella agricola. Nelle grandi estensioni delle masserie o nei piccoli fondi, uomini e donne animavano gli spazi rurali e marcavano i percorsi dalla città alla campagna.
E’ rappresentato da una vasta raccolta di attrezzi come aratri, zappe, rastrelli ed altri strumenti necessari ai diversi lavori nei campi. La raccolta del grano, delle olive, dell’uva, le operazioni di impianto e cura, l’attività di trasformazione dei prodotti della terra vengono riproposti attraverso gli oggetti, indicando le difficoltà e le fatiche dei nostri avi. La vocazione vinicola dell’area è indicata attraverso la ricostruzione di un antico palmento per la vinificazione delle uve, dotato di torchi in legno montati su pilastri in muratura. A tini e tinozzi si accostano tutti gli altri oggetti della sezione speciale Museo del vino, nata nell’ambito della Strada del vino, che raccoglie oggetti, materiali, fotografie, video, immagini e documenti orali relativi ai sistemi di coltivazione, potatura, raccolta e trasformazione dell’uva sino ai vini prodotti in loco ed ai sistemi di conservazione e commercializzazione.

Rullo (in dialetto Rullu)
Grande rullo in pietra di forma cilindrica con due manici laterali in ferro; usato per pareggiare e preparare il terreno prima della caduta delle olive (in termini dialettali “fare l’era”

Falce fienaria (in dialetto Faucioni)
Attrezzo a due mani con lama in ferro arcuata e lunga fissata all’estremità, usata per troncare il foraggio ed ogni genere di erbacce

In basso: Mortaio (dialetto Stuempu)
Recipiente in pietra a sezione circolare con foro centrale ampio; usato per contenere grano ed altri cereali da frantumare, usato in combinata con la Varra
In alto: Forcone (dialetto Furconi)
Attrezzo formato da un manico di legno con otto rebbi di ferro in cima, usato per inforcare, levare o rammontare paglia, fieno, strami, letame

Vari esemplari di Falce (in dialetto Fauci)
Falce con manico corto e lama liscia. Usata per tagliare il grano o altri cereali manualmente.

Ciabattino/Calzolaio (in dialetto Scarparu)

Lo “Scarparo“ è l’antica figura di colui che si occupava della riparazione e manifattura di scarpe di ogni genere. Il termine scarparo indica sia il mestiere del calzolaio che quello di ciabattino. Mestiere oggi non più tanto diffuso come nel passato, un lavoro quasi scomparso e dimenticato.
La vecchia arte del ciabattino, prima dell’avvento del consumismo, era un tipo di manodopera molto richiesta ed era assai ricorrente rivolgersi al calzolaio, poiché, prima di gettar via un paio di scarpe, le si faceva risuolare più e più volte. Un paio di scarpe nuove si riconoscevano dal cosiddetto scamu, cigolìo, e la bottega dello scarparo era piccolissima, appena uno spazio per una sedia ed un tavolino ove erano posati tutti gli attrezzi da lavoro: forma di legno (per riprodurre a misura la scarpa); sottopiede (striscia di cuoio messa sulla base della forma); distanziatore; lissa-pieti ti puercu; tirachiodi-tiracentri; martello-martieddu; lesina- sùgghia, stecchino; marcapunti; pinza-pinzetta pi fari li buchi; trincetto; tenaglia, incudine, ove infilare la scarpa per la lavorazione/riparazione e poi tomaia (parte in pelle, ritagliata secondo una sagoma e montata con dei chiodi); guardolo (striscia di cuoio cucita con la tomaia); suola; tacco (formato da vari strati di cuoio).

Sul ripiano, sotto al tavolo da lavoro, troviamo il Piede di ferro (in dialetto Peti ti fierru) oggetto a corpo unico che riproduce un piede, in cui si infila la scarpa per poterla risuolare o battere i chiodi

Sul Deschetto (in dialetto Canzedda), un tavolinetto da lavoro con un cassetto estraibile, sono presenti una serie di Forme per scarpe in legno (dialetto Formi pi li scarpi ti legnu) utilizzare per realizzare scarpe modellandovi il materiale necessario

Antico materiale per stampa, ciclostile, presse ed altro….

Pressa manuale
Pressa destinata ad ambito tipografico, composta da una base e da un perno superiore con manubrio di forma circolare sostenuti da un’incastellatura in acciaio

Pressatrice manuale
Pressa in ferro con leva fissata su di un supporto a forma di parallelepipedo in legno, utilizzata per realizzare impressioni sulle pelli

Falegname di traini (dialetto Falegnami ti arti crossa)
C’erano falegnami che costruivano i traini (mestri ti arti crossa) e falegnami che costruivano mobili (mestri ti arti fini), competenze ed opportunità di lavoro completamente diverse.
Lu falegnami ti arti crossa è un’arte del tutto scomparsa nella società odierna, in particolare con l’avvento di strumenti meccanici impiegati per i lavori nei campi. La pazienza e dedizione ti li maestri ti arti crossa valeva più della meccanica; una maestria dimostrata soprattutto nelle fasi di costruzione del traino, ti lu sciarrabai, biroccio o calesse che sia.

Si usavano vari tipi di legno per i vari pezzi del carro: abete per il corpo (sponde e piano), l’ulivo per i mozzi della ruota dentro i quali si inserivano raggi di faggio, la quercia per le ruote ed ancora il faggio e l’ulivo per le stanghe. La realizzazione della ruota richiedeva molta precisione. Le ruote erano circondate da un cerchio di ferro che la doveva ben serrare, e l’inserimento della ruota nel cerchio era un’operazione difficoltosa, che richiedeva l’intervento di varie persone, in quanto la circonferenza esterna della ruota era un poco maggiore della circonferenza del ferro nel quale pure doveva essere collocata; ciò era possibile, riscaldando il cerchio di ferro e sfruttando la momentanea dilatazione.

Cric meccanico
Supporto in legno usato per sollevare un carro onde consentire la sostituzione di una ruota o per effettuare altri lavori di manutenzione

Sega (in dialetto trainedda) e altri attrezzi

Grossa sega rettangolare con due manici lunghi e lama centrale.

Banco da lavoro (in dialetto Bancu)

Conciabrocche (dialetto Conzalimmi)
Inconfondibile la sua voce risuonava per le vie del paese. Era l’artigiano che, ogni due settimane circa, girava per le strade in cerca di oggetti in terracotta da riparare. Un mestiere importante in un’epoca in cui gli oggetti avevano un valore intrinseco e venivano utilizzati per decenni, riparandoli più volte e riutilizzandoli fino a quando era possibile farlo. Il conciabrocche era colui che riparava li limmi, ovvero grandi catini di terracotta, utilizzati prevalentemente per lavare o risciacquare i panni, e tutti gli oggetti di terracotta: capasuni, piatti, pitari, capasi, stangati, etc.
L’attrezzatura di questo artigiano ambulante era ridottissima: calce e in seguito cemento, una tenaglia, filo di ferro, ed uno strano aggeggio chiamato trapanaturu. Lu trapanaturu serviva a praticare dei forellini nella terracotta da riparare: la punta di ferro finale veniva poggiata sul coccio e tenuta ferma con la mano sinistra; quindi con la destra il conciabrocche, sempre tenendo ferma la punta metallica sul coccio da forare, con la mano destra sollevava ed abbassava la striscia di legno, con la conseguenza di avvolgere e svolgere ripetutamente il filo, che faceva ruotare velocemente il bastone ed il chiodo fissato all’estremità il quale forava lentamente il coccio; il movimento veniva facilitato e potenziato dal volano.
Lu conzalimmi praticava due file di fori lungo entrambi i lembi dell’oggetto rotto, a due a due corrispondenti; poi faceva passare tra i due buchi corrispondenti un filo di ferro lungo una decina di centimetri, i cui capi avvolgeva strettamente e delicatamente su se stessi; una volta finita questa operazione, i due lembi ed i fori venivano ricoperti con calce o cemento: l’intervento figulo-chirurgico era completato.

Il pozzo e la fontana 

Riproduzione di un vero Pozzo (in dialetto Puzzu)

Struttura in pietra tufacea e malta di sezione rettangolare che rivestiva lo scavo praticato nel terreno per raggiungere la falda acquifera; piccola vasca laterale per convogliare l’acqua; colonnine di supporto per la travetta a pioli di legno a sostegno della carrucola, sempre in legno, per sollevare la fune col secchio; incisioni decorative a bassorilievo frontali

Secchio per il pozzo (in dialetto Sicchiu pi llu puzzu)
Oggetto costituito da un secchio in tela (ormai ridotto a brandelli) con parte superiore circolare rinforzata e dotato di un manico ad arco in ferro legato ad una lunga corda (molto rovinata)

Fontanina pubblica (in dialetto Funtana)
Strumento per l’erogazione dell’acqua pubblica. Oggetto dalla forma conica, corredata di cappello e vaschetta di recupero delle acque, totalmente in ghisa, rubinetto a getto intermittente con meccanismo interno in ottone (manca il pomello del rubinetto). Riporta la data 1914 e la scritta Acquedotto pugliese

Brocca (in dialetto Bucalu)
Brocca in latta con lungo becco e dotata di un manico

Serie di Giare (in dialetto Capasoni)
Si tratta della Tipica giara, panciuta, munita di due anse e con collo cilindrico. Dotato nella parte bassa di due fori che fungono da bocchetta di scarico: uno per il vino e l’altro per la feccia (o vino intorbidito). Queste bocchette vengono chiuse da un tappo, chiamato “pipulu”. Rivestimento vetroso e stannifero.

Orciolo (in dialetto Ursulu)
Boccale in terracotta smaltata ad un’ansa con beccuccio e collo quasi verticale, usato per portare il vino a tavola e per spillarlo dalla botte o dal “capasone”

Bascula

Strumento in ferro/legno per la pesatura di oggetti o generi di considerevoli dimensioni e quantità allocato presso  l’ex frantoio oleario. Modalità d’uso: si appoggiavano l’oggetto o le derrate da pesare sulla pedana e si cercava di trovare  il peso spostando l’indicatore che sta sull’asta millimetrata fino a che non si trovava in equilibrio

Bilancia (in dialetto viddanza)
Strumento formato da una leva (giogo) a bracci uguali alle cui estremità sono legati con corda due piatti in vimini intrecciato. Su uno dei due piatti si metteva il peso, sull’altro ciò che si doveva pesare

Il nettare degli Dei
La dimensione “industriale” assunta dall’economia vinicola di Latiano è testimoniata da ampie aree rurali coltivate a vigneto e da una serie di aziende che trasformano il prodotto, lo imbottigliano e lo commercializzano con metodi innovativi. Questa configurazione quasi monocolturale del territorio è un fatto abbastanza recente e risale al secolo scorso.
Sulla base della documentazione settecentesca, il vigneto risultava destinato all’autoconsumo e conviveva con colture ortofrutticole, seminativo ed oliveti all’interno dello stesso appezzamento. L’impianto di “vigna pastana”, cioè giovane, indicava in quel periodo una tendenza all’aumento del vigneto, sottolineando la vocazione vinicola del territorio, che oggi risulta essere uno dei più produttivi della provincia di Brindisi.
Le uve più coltivate per la vinificazione sono il Primitivo, il Negramaro e l’Ottaviano ma non mancano diverse varietà di uva da tavola.

Dall’impianto alla cura del vigneto
L’impianto di un vigneto non era un’operazione di poco conto e dipendeva molto dalle condizioni del terreno. Soprattutto se c’era roccia affiorante si effettuava il cosiddetto “scasso” con la zappa, necessario per far emergere lo strato di terra sottostante da lavorare, concimare e segnare con solchi profondi paralleli.
Le piantine della vite venivano messe a dimora in buche profonde, scavate da un trapano rudimentale, e venivano inserite in profondità grazie ad uno strumento molto singolare, la furcina. Oggi questi procedimenti sono agevolati da attrezzature meccaniche.
Ad un anno dall’impianto, si praticano gli innesti attraverso alcuni tagli nelle gemme o nella parte legnosa; dopo tre anni dall’innesto, il vigneto diventa produttivo. Necessita di cure costanti; “sfogliamento”, concimazione, potatura, scacchiatura, sarchiatura, zolfatura… sono operazioni oltremodo necessarie per una produzione di qualità.
Il sistema di coltivazione più diffuso è quello “a spalliera”, con fili di ferro orizzontali, sostenuti da pali, sui quali crescono i tralci; il sistema “a tendone”, invece, è utilizzato per l’uva da tavola e trae origine dai pergolati delle casine di campagna, funzionali non solo alla produzione di uva per il fabbisogno domestico ma anche ad un’intimità familiare ombrata e al riparo dalla calura estiva.

La produzione del vino
Alcuni mesi prima della vendemmia, in genere alla fine di maggio, la pianta deve essere “sfogliata” in modo che i grappoli possano catturare tutta la luce; allo stesso modo, verso la fine di agosto, si procede ad aprire la pianta da tutti i lati al fine di agevolare una maturazione più veloce.
Fra settembre ed ottobre, quando il frutto ha raggiunto la maturazione ottimale, inizia la vendemmia, uno dei momenti agricoli più intensi e pieni di aspettative per gli imprenditori del settore.
Nel passato, la trasformazione dell’uva era quasi una festa, nonostante il duro lavoro. I palmenti erano dotati di due grandi vasche, dette pilaccio e fermentino (quest’ultima ad un livello più basso rispetto alla precedente), collegate fra loro da una sorta di saracinesca di legno; nella prima si pigiava l’uva a piedi scalzi, nell’altra si accumulava il mosto per la prima fermentazione. La pasta dell’uva pigiata, rimasta nella vasca, veniva sottoposta alla torchiatura, per recuperare altro mosto. Il nettare degli Dei così prodotto veniva trasportato in casa e conservato in grandi recipienti, capasuni, dove continuava a fermentare in luoghi freschi e asciutti.

Nella foto che segue:  damigiane, imbuto, fiaschi e capasoni (vedi sopra) in primo piano; due piccole ronche sulla parete

Damigiana (in dialetto damiggiana): Recipiente di vetro verde scuro per liquidi, di forma approssimativamente sferica. Simile a un grosso fiasco, rivestito di vimini intrecciato come un cesto nella parte inferiore che termina con due anse laterali e di paglia intrecciata nella parte superiore.

Imbuto (in dialetto mmutu): Oggetto usato per travasare liquidi (di solito da un contenitore più grande a uno più piccolo)

Fiasco (dialetto Buttiglione pi lu mieru): Grande recipiente di vetro scuro dalla forma alta e cilindrica, base larga e collo lungo; presenza di un tappo di sughero

Ronciglio (dialetto Ronca): Falcetto ricurvo costituito da un manico di legno nel quale è inserita la parte metallica a forma di mezzaluna. Dalla base del falcetto parte una piccola accetta.

Sulla parete laterale sono appesi  una serie di setacci:

Vaglio per olive (Scigghiaturu pi ll’aulivi)

Strumento per separare dalle olive raccolte le foglie. Oggetto con struttura in legno, di forma rettangolare e con sponde. Il fondo in ferro presenta dei fori. È dotato di due manici che partono da uno dei lati corti e corda per appenderlo al chiodo

Vaglio per legumi (in dialetto Cicirau): attrezzo usato per separare i legumi secchi dalle impurità; ha forma circolare con bordo in legno e fondo in rame bucherellato.
Vaglio per legumi (specialmente fave detto Sciàtucu): come il Cicirau ha forma circolare ed è composto da un bordo in legno e da un fondo di rame bucherellato; ma a differenza del precedente ha fori piuttosto grandi

Carretto (in dialetto Caratizza)
Carretto di legno di piccole dimensioni a tre ruote: due grandi laterali ed una più piccola anteriore. Sul carretto è fissata orizzontalmente una botte. Parti componenti: stanghe, ruote e traversa.
Usato per trasportare il mosto dal palmento alle case private dei contadini. Trainato a mano o più raramente da un asino.
Dopo aver lasciato l’uva pigiata nella fermentina per poche ore, il mosto ottenuto veniva versato in recipienti di rame “li mensi” e poi versato “ntra la caratizza” per essere trasportato nelle case dei contadini

Canestri e Panieri (in dialetto Canistri e Panarieddi)
Canestri. Recipienti in vimini intrecciati a mano, usati per contenere e trasportare grappoli d’uva raccolti durante la vendemmia o la raccolta delle olive.
Panieri. Hanno forma e funzioni simili ai canestri con la differenza che, sulla forma cilindrica a base circolare è inserito un manico semicircolare.

Tinella (in dialetto Tinedda)
Contenitore di forma cilindrica dotato di due manici rettangolari ai lati, usato per trasportare l’uva raccolta durante la vendemmia

Torci feccia (in dialetto Monucu), con Sacco e Bastone
Sorta di tinello alto dalla forma troncoconica con bocca più stretta della base, costituito da doghe di legno tenute insieme da cerchi di ferro; all’interno era posto un sacco di juta (dial. Saccu ti lu monucu) nel quale era posta la feccia; questo chiuso, tirato verso l’alto del tino e premuto contro le sue pareti sempre più strette facendo leva su di un bastone di legno (dial. Bastoni pi lu monucu), rilasciava vinello che si depositava sul fondo del tino stesso

Pompa per irrorare il solfato di rame alla vite (in dialetto Pompa ti pumpari)
L’attrezzo è costituito da un serbatoio di forma ovoidale annesso ad una pompa e ad una cannola provvista di uno o più ugelli spruzzatori. è dotato di un manico con impugnatura in legno e di due fasce per il trasporto a spalla

La raccolta delle olive
I preparativi per la raccolta iniziavano nel mese di agosto con il reclutamento della manodopera femminile da organizzare in gruppi; si trattava di personale con esperienza, in grado di affrontare una campagna olivicola che si poteva prolungare anche fino al mese di febbraio. A settembre, i contadini preparavano il terreno sotto l’albero; lo spianavano e facevano delle vere e proprie piazzuole circolari (aie) con bordo rialzato, necessario ad evitare il trascinamento delle olive in caso di pioggia.
Le donne si disponevano intorno all’albero, raccoglievano le olive e le mettevano in un paniere che, una volta riempito, veniva svuotato in grandi sacchi di iuta da caricare sui traini per il trasporto nelle rimesse delle case, nei frantoi o nella piazza per la vendita.
Non mancava la raccolta diretta dall’albero, detta brucatura, attraverso l’ausilio di piccole scale; si scuotevano con delicatezza i rami e i frutti maturi cadevano sul telo posizionato sotto l’albero.

Il piccolo grande frutto
Il paesaggio agrario di Terra d’Otranto è stato caratterizzato da sempre dall’olivo, presente sia in associazione ad altre colture sia come coltura specializzata. Ampi tratti di territorio erano coltivati ad oliveto e anche nelle aree più impervie, con roccia affiorante, l’albero d’olivo cresceva rigoglioso, fiero di “tanta beltà”.
A Latiano, questa coltivazione era molto più diffusa in passato, sostituita da una sempre crescente attenzione verso il vigneto. Le cultivar predominanti erano l’ogliarola e la cellina di Nardò, molto resistenti ai capricci della metereologia ed in grado di adattarsi ai terreni più difficili e più aridi. La raccolta delle olive si apriva ad ottobre-novembre e terminava a febbraio; le campagne si animavano di uomini, donne e bambini dall’alba al tramonto mentre nei frantoi, gli impianti per la produzione di olio, la febbrile attività di trasformazione procedeva senza sosta fino a marzo-aprile.

La spremitura e l’oro liquido
Dopo la molitura, che riduceva le olive in poltiglia, si riempivano i fisculi da impilare e da sottoporre alla spremitura o pressatura; durante questa fase, l’olio gocciolava in canaletti, posizionati alla base dei torchi, e confluiva nei diversi pozzetti di decantazione. Il “taglio” dell’olio, momento particolarmente delicato, spettava al nachiro che, provvisto di nappu, con un gesto fermo e veloce raccoglieva quello salito in superficie e lo versava in contenitori appositi in attesa di essere trasportato presso i proprietari o di essere venduto al dettaglio.
Tutta la filiera di trasformazione del prodotto avveniva in ambienti resi caldi dai camini perennemente accesi; era necessario mantenere una temperatura costante tra i 16 e i 20 gradi ed evitare escursioni termiche per agevolare le diverse fasi di produzione dell’olio.

Il frantoio
Gli antichi frantoi ipogei o semi-ipogei erano i luoghi destinati alla trasformazione delle olive. Vi lavoravano una squadra di trappitari, spesso provenienti da altre aree di Terra d’Otranto, e il nachiro, responsabile della produzione e della gestione delle attività e del personale.
In questo contesto non poteva mancare il mulo o l’asino che, legato ad una stanga e bendato per evitare capogiri, azionava la macina della vasca per frangere le olive e ricavare cosi la poltiglia da inserire nei fisculi. Spesso era presente anche un ragazzo molto giovane, lu turlicchiu, al quale spettavano le mansioni più umili; si potrebbe considerare una sorta di apprendista, in grado di svolgere in età adulta un ruolo di responsabilità all’interno di un frantoio. Uomini ed animali, dunque, vivevano in simbiosi per alcuni mesi dell’anno, lavorando duramente ed incessantemente per l’economia del territorio.
I depositi per le olive, la vasca con la macina per la molitura, la màttara, piano di appoggio necessario per riempire i fisculi di pasta di olive, i torchi per la spremitura, i pozzetti per la decantazione e il “taglio” dell’olio, le pile per lo stoccaggio in attesa del trasporto e della vendita, i diversi contenitori per la conservazione; ogni strumento e ogni angolo del frantoio aveva una funzione ben precisa ed era un tassello fondamentale nella complessa e faticosa produzione “dell’oro liquido”.

Torchio (in dialetto Torchiu o Cuenzu)

Viene usato per comprimere i fiscoli contenenti la pasta delle olive precedentemente molite per mezzo della macina.

Grazie alla pressione esercitata viene effettuata la spremitura che permette, così, l’estrazione dell’olio.

Questo tipo di torchio viene comunemente chiamato “alla genovese”: è formato da un solido basamento in pietra da cui sorgono due pilastri, sempre in pietra locale, nel quale sono incassate due canalette di legno che rendono il torchio mobile. Il torchio si compone di una madrevite fissa posta in alto; il centro della madrevite è trapassato da una vite mobile denominata fusulu alla quale è incorporato un grande zoccolo, palomma, caratterizzato da alcune sporgenze nelle quali si infilava, alternatamente, la stanga per procedere alla stretta del torchio.

Fiscolo (in dialetto Fišculu)
Cesta rotonda e piatta, che assomiglia ad una ciambella, costituita da due dischi sovrapposti e cuciti (con trama di fibre intrecciate) tra loro dal bordo esterno. Nella parte centrale i due dischi non son cuciti e presentano un buco avente un diametro differente l’uno dall’altro.
Il fiscolo contiene la pasta delle olive (ottenuta con la molitura); essa veniva spremuta dal torchio per estrarne l’olio, che iniziava a colare così da ogni parte.

Torchio manuale ( in dialetto Stringituru)
Torchio per uso domestico costituito da una struttura verticale portante, sostenuta alla base da una pesante traversa in legno. Nella parte superiore un’altra traversa funge da madrevite. All’interno di questa traversa è allocata una grossa vite di legno verticale terminante con una testa di legno squadrata e bucata al centro e solidale ad essa. La vite poggia su di una tavola di legno che ha la funzione di pressa. Al centro della traversa sottostante c’è l’alloggio circolare delle ceste circondato da un canale di scolo che finisce in una cannella fuoriuscente. Base con tre piedi.

Serie di Oliere, Brocche (in dialetto Bucali) e Bidoni (in dialetto Zirrettu o Bitoni)
recipienti in latta di vario tipo, alcuni dei quali con becco e dotati di manico

Ambiente casalingo
La ricostruzione di una casa contadina di fine Ottocento inizia con la presentazione dell’ambiente che rappresenta il centro della vita familiare: La Cucina con tutti i suoi attrezzi.

In alto Piattaia o Scolapiatti in legno (in dialetto Piattèra), rastrelliera in legno usata per riporre le stoviglie pulite, con Vasellame in terracotta e ceramica. 

In basso serie di Macinini (in dialetto Macinieddi). Usati per macinare caffè, pepe e altre droghe; hanno forma quasi cubica con cupola semiapribile e manovella. Alla loro base c’è un cassettino che raccoglie il macinato

Sulla parete destra una serie di Tegami (in dialetto Patelli), in rame (ma possono essere anche di terracotta invetriata), usati in genere per cuocere pietanze, in particolare carne e verdure, che non richiedono bollitura

Sul muro di fronte serie di Grattugie (in dialetto Grattacasu)
Utensili in legno di forma rettangolare, composti da una lastra in ferro bucherellata, e un cassetto raccoglitore estraibile;

di fronte in basso: Madia (in dialetto Mattra) con sopra setacci per la farina
Mobile rustico per lavorare e conservare il pane fatto in casa, costituito da una cassa oblunga

sulla porta: immagine devozionale dei Santi Cosma e Damiano

Vasellame rustico in ceramica

Contenitori in terracotta per alimenti (dialetto Stangatu)  con imboccatura larga (coperchio mancante) e invetriatura esterna, usati per conservare fichi secchi, marmellate o altri cibi. In primo piano spicca un fiasco (vedi sopra) con la scritta W Vino;

a destra un Mantice manuale (in dialetto Suffiettu). Piccolo mantice manuale in cuoio, posto tra due tavolette di legno, terminante con un cannello in metallo; usato per  ravvivare il fuoco, viene azionato con le mani, soffiando aria sulla brace.

Passapomodoro (in dialetto Cunservarola), formato da una lamiera concava e bucherellata, inserita in una spessa cornice di forma rettangolare. L’utensile viene usato come colino nella preparazione della salsa di pomodoro concentrata detta “cunserva”.

Candelabro (in dialetto candelabru)
Lunga asta in ferro appesa alla parete, usata per reggere le candele

Sulla piattaia (si veda in precedenza), oltre ai piatti e gli orcioli sono appese tre Schiumarole ( in dialetto Cacciapesci), mestoli con una piastra forata atta a togliere gli alimenti dall’olio di frittura

Il camino costituiva indubbiamente il centro della casa intorno a cui radunarsi per scaldarsi durante le lunghe sere d’inverno, ma era anche il posto dove si potevano cucinare i cibi.

Il Calderotto (dialetto Burzunettu) era un pentolone largo e profondo di rame, sospeso  tramite la catena sul fuoco vivo del focolare; usato per bollire l’acqua per usi domestici e nelle famiglie numerose anche per cuocere la pasta

Tavola da pranzo (dialetto Banca), piano di legno sostenuto da quattro gambe, con cassetto estraibile, usato per consumare il cibo in cucina. Intorno al tavolo ci sono le Sedie impagliate (dialetto Seggie)

Piede del braciere (in dialetto Peti ti la fracera): Oggetto di forma circolare, con un’apertura al centro e quattro appoggi; usato per poggiare i piedi dopo aver messo al centro il braciere.

Braciere (in dialetto Brascera), catino mobile di rame, rotondo e concavo, usato durante l’inverno per scaldare persone e ambienti .

Attizzatoio (in dialetto Ttizzaturu). Oggetto in ferro usato per smuovere la brace mantenendo vivo il fuoco.

Trabiccolo asciugapanni (in dialetto Monaca). Intelaiatura di fasce in legno chiodate con base circolare all’interno della quale andava messo il bracere con i carboni, per asciugare i panni.

Girello fisso (dialetto Scapulaturu).
Girello a base quadra e privo di ruote, in cui il bambino poteva muovere i primi passi evitando di cadere; non era necessaria la sorveglianza dell’adulto.

La ricostruzione  della casa contadina di fine Ottocento continua in questa stanza, per cui su un lato è rappresentato l’angolo della Pulizia con  la pila e il lavatoiol’ambito agricolo con la raccolta degli attrezzi più comuni per lavorare la terra.

Pila
Vasca di pietra dalla forma rettangolare con rialzo laterale e foro di scolo; usata per lavare.

Lavatoio (in dialetto Lavaturu)

All’interno della pila troviamo il lavatoio, tavola in legno scanalata su cui venivano strofinati i panni bagnati per togliere le macchie

Sulla sinistra si vede il Catino sterilizzatore (in dialetto Cofunu)

Grande catino di terracotta grezza dalla forma ovoidale, privo di collo, con imboccatura larga e bordo rovesciato; superficie esterna decorata con motivi a cordoni modellati, beccuccio nel basso ventre per facilitare uscita della liscivia; tracce di calce diffusa; si usava fare il bucato con acqua calda e cenere per rendere candida ed odorosa la biancheria.

A sinistra del catino sterilizzatore c’è il Lavabo (in dialetto Lavandino),  che consta di una struttura in ferro detta Toletta, che poggia su tre piedi dotata di tre cerchi (uno più ampio per la bacinella, uno inferiore per la brocca e uno al centro per il piattino del sapone). Nella parte posteriore un appendino per l’asciugamano e più in alto un gancio dove probabilmente andava uno specchio.

L’ambiente agricolo

L’ambiente agricolo assume una configurazione particolare perché, fino al secolo scorso, l’attività principale dell’economia di Latiano è stata quella agricola. Nelle grandi estensioni delle masserie o nei piccoli fondi, uomini e donne animavano gli spazi rurali e marcavano i percorsi dalla città alla campagna.
E’ rappresentato da una vasta raccolta di attrezzi come aratri, zappe, rastrelli ed altri strumenti necessari ai diversi lavori nei campi. La raccolta del grano, delle olive, dell’uva, le operazioni di impianto e cura, le attività di trasformazione dei prodotti della terra vengono riproposte attraverso gli oggetti, indicando le difficoltà e le fatiche dei nostri avi. La vocazione vinicola dell’area è indicata attraverso la ricostruzione di un antico palmento per la vinificazione delle uve, dotato di torchi in legno montati su pilastri in muratura. A tini e tinozzi si accostano tutti gli altri oggetti della sezione speciale Museo del vino, nata nell’ambito della Strada del vino, che raccoglie oggetti, materiali, fotografie, video, immagini e documenti orali relativi ai sistemi di coltivazione, potatura, raccolta e trasformazione dell’uva sino ai vini prodotti in loco ed ai sistemi di conservazione e commercializzazione.

Sul ripiano in legno, vari tipi di Fiscella per ricotta (in dialetto Fiscarieddu). In vimini intrecciati, in ferro zincato o in terracotta, la fiscella veniva usata per scolare e dare forma alla ricotta ma anche trasportarla.

Campanaccio (in dialetto Campanazzu)
Campanaccio di ferro a forma tronco-conica dotato di un collare di legno. (Quelli di grande dimensioni erano prerogativa dei capo-mandria).
Veniva usato per rintracciare i capi di bestiame che si allontanavano dalla mandria durante il pascolo.

Aratino (in dialetto Aratinu)
è un aratro dotato di due ruote usato per fendere e rovesciare la terra e prepararla alle colture.

Serie di Falci (dialetto Fauci)
Strumento usato per tagliare il grano o altri cereali manualmente.

Aratro a chiodo con ali (dialetto Furchinu cu ll’ali)
L’attrezzo è dotato di punta per scalfire, rompere e rivoltare la terra. Manca il vomere in ferro. L’oggetto è dotato di un timone a due braccia, dette ali, da attaccare al collare del bestiame da soma.

 

Erpice a denti rigidi. Attrezzo agricolo con struttura in legno e dotata di lame rigide per frantumare e sminuzzare le zolle. Veniva trainato, ed era usato per dissodare il terreno prima della semina.

Serie di attrezzi agricoli

Serie di Aratri a chiodo (furchinu)

L’attrezzo è costituito da tre elementi principali, collegati tra loro ad angolo ottuso quasi a formare una V: asse anteriore (timone o bure), l’asse posteriore (utilizzato dal guidatore) più corto del precedente, e il terzo elemento, sistemato orizzontalmente, è il corpo lavorante detto vomere, in ferro, di forma triangolare e dotato di punta per scalfire, rompere e rivoltare la terra.

La ricostruzione della casa contadina di fine Ottocento continua con questa stanza in cui è rappresentato il vano artigianale, e in particolare un mestiere che si sta via via estinguendo con la modernità.

Tra ferro e fuoco: il fabbro e il fabbro maniscalco
La lavorazione del ferro conserva un fascino tutto particolare, soprattutto se associata alle atmosfere delle antiche botteghe in cui i rossi bagliori improvvisi della fucina a mantice illuminavano i gesti abili ed esperti degli artigiani.
Attraverso la forgia a carbone, il ferro viene riscaldato e, quando diventa incandescente, può essere lavorato e plasmato sull’incudine attraverso l’uso di diversi attrezzi. Riscaldare il metallo non è un’operazione facile ed occorre una certa esperienza; il fabbro sa perfettamente che dalla temperatura dipende la lavorabilità del metallo che assume un certo colore a seconda dei livelli di calore. Il colore, infatti, è un indicatore fondamentale e il ferro, man mano che si riscalda diventa rosso, poi arancione, poi giallo ed, infine, bianco. La temperatura ottimale per la forgiatura corrisponde al colore giallo-arancione, grazie alla quale il ferro viene lavorato e plasmato con il martello in base alla forma da realizzare. La valutazione precisa del colore del metallo aveva indotto molti fabbri a lavorare al buio o in ambienti poco illuminati.
Quando il fabbro si occupa soprattutto degli attrezzi per i cavalli si chiama maniscalco.

Forgia a mantice (in dialetto Fucina a mantici)

E’ composta da mattoni refrattari al calore, con una leggera cavità per il posizionamento del carbone. Una parete in pietra collega l’oggetto a una cappa e presenta un foro nella parte centrale, indispensabile per l’inserimento dell’ugello del mantice. Al suo interno vengono scaldati il ferro e gli altri metalli rendendoli malleabili e plasmabili per la lavorazione; ciò è reso possibile dal carbon fossile ivi acceso e dal mantice che ossigena il fuoco per mezzo di un condotto di ferro, l’ugello.

Mantice (dialetto Mantici)
L’oggetto possiede un corpo in cuoio a forma di fisarmonica, fissato tra due pareti di legno che si restringe in un beccuccio (che attraversa la parete della forgia); queste, inoltre, poggiano su di una base sempre di legno; nella parte superiore si trova una leva di legno con due catene poste alle estremità, una fissata al mantice, l’altra determina l’azionamento del dispositivo; serve a mantenere vivo il fuoco ossigenandolo, in pratica è come un ventilatore azionato da una catena che veniva tirata alla bisogna.

Una dimostrazione pratica del suo funzionamento

Serie di pinze e tenaglie di varie lunghezze e utilità

Serie di Ferri di cavallo (dialetto Fierri ti cavaddu)  appesi al muro
L’oggetto è un pezzo di ferro a “C” che presenta dei fori per i chiodi, e quattro ramponi, che impediscono all’animale di scivolare

Scanno (dialetto Tripieti) e sgabello
è la base d’appoggio per lo zoccolo da ferrare, ottenuto da una sezione di un tronco d’albero modellato per ottenere una base stabile con tre estremità. Sullo sgabello,  poggiante anch’esso su tre piedi e a base concava per non creare ostacolo durante la ferratura, sedeva il maniscalco.

Corno
in legno con un foro nella parte superiore, veniva usato per richiamare il bestiame che si era allontanato dalla mandria

Rastrelliera in ferro con straccio

Serie di attrezzi meccanici e di misurazione

Serie di chiavi e chiavistelli (in dialetto Chiai e Varroni)

Sistemi di chiusura di porte e imposte

Il fabbro-maniscalco

è l’artigiano che esercita l’arte della ferratura del cavallo e degli altri equini domestici (asino e mulo). Un’importante fase della ferratura è il pareggio, che consiste nell’asportazione dell’eccessiva crescita delle varie parti dello zoccolo rivolte verso il suolo.

Appoggio per finimenti equini, con Bardature complete (Bardella, Basto, Bastino, collare, sottopancia, ecc,)  per animali da soma

Collare (dialetto Cuddaru)

Collare imbottito e a tre strati con decorazione usato, per attaccare il cavallo a un carro

Basto (dialetto Varda)
Basto rudimentale. L’oggetto è costituito da due scalette (una su ogni lato) collegate da corde parallele. Ogni scaletta ha una parte con tre pioli (quella esterna) e una parte con due pioli (quella interna) fissate tra loro con un gancio in ferro che ne impedisce l’apertura. La struttura si ripiega a fisarmonica . Usato per Caricare sacchi o altro da trasportare sulle spalle dell’asino.

Morsa

Lo strumento è costituito da due robusti bracci o ganasce mobili di legno duro (che consentono la presa del pezzo da lavorare) e da una grossa vite in ferro (fissata con perno al banco di lavoro) per stringerli o allentarli; il tutto è fissato su di una panca di legno su cui avvenivano anche le operazioni di limatura e segatura.
La sua funzione è di stringere pezzi di ferro o cuoio consentendone la lavorazione: limatura, segatura, torcitura, ecc.

Bardella per attacchi ( dialetto Vardedda)

Bardella, senza seduta, con leggera imbottitura ed anelli laterali (dei quali uno mancante) in ferro per inserire gli attacchi per il carro o gli altri mezzi di trasporto; comprensiva di sottopancia (larga cinghia in cuoio che circonda il torace del cavallo); elemento decorativo in lamiera verniciata di verde a forma di volatile con becco pronunciato che domina la parte anteriore del sellino

Chi è interessato ai finimenti equini può consultare il nostro servizio sul Primo Festival Attacchi d’Epoca a Latiano a questo link http://wp.me/p8GemW-2F0

Di seguito la seconda parte del nostro lavoro

Museo delle Arti e Tradizioni di Puglia – Latiano (Br) 2^ Parte

Si ringrazia:

Il Presidente della locale Pro Loco prof. Mino Galasso  e l’amico Mario Carlucci

Bibliografia e sitigrafia:

http://www.beniculturali.it/mibac/export/MiBAC/sito-MiBAC/MenuPrincipale/Ministero/index.html

Polo Museale – Città di Latiano, Convento dei Domenicani e Torre del Solise; settore servizi culturali: Rita Caforio, Giovanna Carrino, Margherita Rubino, Francesca Tauro. Stampato nel 2016

3 commenti

  1. Grazie, grazie e ancora grazie, complimenti, bellissiomo, interessante, curato nei minimi particolari. Mi avete fatto rivivere tutta la mia infanzia in compagnia del mio primo maestro di vita, mio nonno Angelo Panà per gli amici ‘Nginu.

  2. Una Rappresentazione encomiabile! Bravi!!

    1. Gentilissimo, grazie.
      Francesco Guadalupi

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